L’editore Donzelli pubblica Ballate di Lagosta

ed io non saprò
di te, se ti tufferai
o scenderai tra i gradoni
di calcare e poserai
sopra la posidonia
la tua sagoma di uomo
che continuerà a muoversi con le onde,
che continuerà a crescere dopo di me,
dopo la mareggiata
e l’erosione della nostra memoria

da Ballate di Lagosta (Donzelli editore 2022)

Il dato biografico sembra connaturato a quello geografico in questo poeta nato a Trieste nel 1975. Christian Sinicco, fondatore della Lega Italiana Poetry Slam, tra le molte attività per la poesia, monitora e segue il progetto L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti in dialetto e in altre lingue minoritarie (2014). Dopo anni di occupazioni instabili e lotta al precariato, oggi è sindacalista Cgil e lavora per una concessionaria autostradale in una zona di transito tra Nord Europa, Adriatico e Balcani. Al mare proteso verso Oriente, nell’onda lunga di una Mitteleuropa sommersa ma residua, è legata la sua raccolta più compiuta, Ballate di Lagosta, con affondi nel mare nostrum inteso non come casa, o habitat naturale, ma possibilità di movimento e voce. Moto che con Sinicco si impone per insurrezione primitiva, solo in seconda battuta per acquisizione, e sempre come canto. È a Lagosta (in croato Lastovo), isola della Dalmazia meridionale e luogo nuovo ed estraneo che, dopo un viaggio di svago, il poeta trova la sua Permanenza biologica, quasi pre-verbale. Non il racconto di sé e del proprio bios, piuttosto quello di un altro nucleo familiare, con la processione di Ferragosto e i rituali di persone e affetti acquisiti – Marija e Ambroz, Marijana, Jadro, Sara – pronti per alterità a farsi uomo e personaggio («l’isola è un uomo»). Individualità spiccate che si compenetrano nella collettività dei sensi e del rito: la ballata antica e popolare, il sonetto d’amore spinti alle soglie della canzone e del rap nell’intento multiplo di preservare la diversità di ogni singola voce del coro. Come nell’ultima sezione che è l’ipotesi meno scontata cui la raccolta pare aderire: il ritorno degli «spariti nelle onde», i migranti, dei quali – al pari di Marija, Ambroz, Jadro – il poeta recupera l’isola, il tuffarsi nell’oltre del suono che erode la sparizione.

Elisa Donzelli

Christian Sinicco è nato a Trieste nel 1975. Caporedattore di «Fucine Mute», tra i primi periodici multimediali italiani, ha fondato la Lips (Lega italiana poetry slam). Cura l’indagine sulla nuova poesia dialettale confluita in L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti in dialetto e in altre lingue minoritarie (1950-2013) (Gwynplaine, 2014) e dirige «Poesia del nostro tempo». Ha pubblicato poesia in rivista e in volume tra cui le raccolte Passando per New York (LietoColle, 2005), Alter (Vydia editore, 2019) e Ballate di Lagosta (Donzelli editore, 2022) . Suoi versi sono tradotti in albanese, bielorusso, catalano, croato, inglese, lettone, olandese, slovacco, sloveno, spagnolo, tedesco e turco. Sindacalista Cgil, lavora in una delle concessionarie autostradali del Triveneto, in una zona di transito tra Nord Europa, Adriatico e Balcani.

Anteprima del libro su Le parole e le cose

Le recensioni a Ballate di Lagosta sul sito dell’editore Donzelli

Alter, la nascita del linguaggio dell’androide

alter

Vydia editore ha pubblicato il mio libro Alter, con la prefazione di Giancarlo Alfano, che ringrazio tantissimo, anche perché ha seguito il volume nella sua formazione negli anni.

Vydia è un editore d’arte che negli ultimi anni, sotto la direzione di Cristina Babino, nella collana Nereidi, si sta occupando di realizzare libri di poeti delle generazioni nate negli anni Settanta e Ottanta, con delle prefazioni di critici importanti. Anche a Cristina Babino va fatto un grande ringraziamento, per la passione che la anima e la professionalità.

Desidero anche ringraziare in special modo i poeti Matteo Danieli e Furio Pillan, i cui consigli hanno fatto sedimentare delle scelte e degli orientamenti concettuali e spaziali! Spero ne possiate godere, spero che quest’opera possa cambiare il modo in cui guardiamo la nostra esistenza.
 
Per chi è amante della poesia, per chi ha amato Apollinaire o Thomas, per chi si è entusiasmato con la serie Zeroglifico di Spatola, per chi ha letto quel visionario di Ross Rocklynne, queste poesie surrealiste, fantascientifiche, psichedeliche, questa poetica dell’altro (o dell’oltre), saranno forse interessanti.
 
alterrealta

Alter è un’opera bipartita.

La prima sezione Città esplosa (scritta nel 2001) tratta la distruzione della civiltà umana e la disarticolazione del linguaggio tramite una serie di visioni ambientate nel futuro, dove l’umano non è presente o dove sono presenti animali, alieni e androidi.
La seconda parte Alter, che dà il titolo all’opera, discute la nascita di un androide, assemblato da macchine volanti, congegni transformer, che mutano in insetti meccanici, o in vento, elementi naturali.
Alter è uno dei personaggi dei mondi possibili descritti all’inizio del volume, e tutta la seconda parte del libro è dunque lo spin off di uno dei testi della prima parte.

alter_nome

L’androide Alter viene creato da un alveare di macchine, ed è un essere che non ha le nostre stesse sinestesie. Le macchine mutanti realizzano l’androide, muovono la sua esistenza da 0 a 1 – la nascita è avvertita nell’opera come una voce trasportata, l’inizio è una trasmissione, l’identità è stata riavvolta e scandita; affinché sia possibile la sua installazione, ciò che era multiforme e corpuscolare è stato riconvertito in una unità, e vi è stato sussurrato il senso dell’infinito, il suono, il sentimento, la pronuncia di se stesso.

Christian Sinicco è nato a Trieste nel 1975.

Nel 2002 diviene caporedattore di «Fucine Mute», tra i primi periodici multimediali ad essere iscritto nel Registro Stampa in Italia (1998), dove avvia il progetto di catalogazione della poesia delle nuove generazioni; intervista anche alcuni tra i poeti italiani più significativi, come Mario Luzi, Maria Luisa Spaziani e Franco Loi.

Ha pubblicato: Passando per New York (LietoColle, 2005; prefazione di Cristina Benussi), la plaquette Ballate di Lagosta Mare del Poema (CFR, 2014; introduzione di Alberto Bertoni e nota di Cristina Benussi) e il libro d’arte Città esplosa (Prova D’Artista / Galerie Bordas, Venezia 2016;  introduzione di Giancarlo Alfano) poi contenuto in Alter (Vydia, 2019; prefazione di Giancarlo Alfano).

Le sue poesie sono state tradotte in bielorusso, catalano, croato, inglese, lettone, olandese, sloveno, spagnolo, tedesco e turco.
Attualmente dirige «Poesia del nostro tempo – poesiadelnostrotempo.it» ed è redattore di  «Midnightmagazine» e «Argo», per cui ha curato anche l’indagine sulla nuova poesia dialettale L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti in dialetto e in altre lingue minoritarie (1950-2013) (Gwynplaine 2014) e gli annuari di poesia. Si occupa di lingue e dialetti nelle giurie dei premi Giuseppe Malattia della Vallata e Pierluigi Cappello, dirige il piccolo festival Ad alcuni piace la poesia (Montereale Valcellina, PN); a Trieste ha fondato il gruppo di poesia Gli Ammutinati e, in seguito, la Lips – Lega Italiana Poetry Slam, di cui è stato Presidente, nonché ha diretto alcuni festival, tra cui Iperporti – Scali Internazionali di Letteratura.
Il suo sito è https://christiansinicco.wordpress.com/

Sulla rivista “in pensiero” è possibile ascoltare un estratto di Alter interpretato dall’autore in occasione di una performance assieme alla rock band Babygelido

Inoltre sul suo spazio Soundcloud è presente una registrazione effettuata dal musicista Stefano Muzzin

L’Italia a pezzi | appunti

Indagine, problematiche

Italia a pezziNel parlarvi dell’antologia che ho curato – L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti italiani in dialetto e in altre lingue minoritarie tra Novecento e Duemila – assieme a Manuel Cohen, Valerio Cuccaroni, Rossella Renzi e Giuseppe Nava non posso che discutere  la difficoltà della critica nell’affrontare un discorso sulla storicizzazione delle opere di poesia. Il lavoro sulle opere in neovolgare – neodialettale – lingue minoritarie che ho curato,  segue alcuni rilievi dell’opera La poesia in dialetto di Brevini pubblicata da Mondadori, e si occupa di storicizzare i profili di poeti, nella maggior parte dei casi, viventi. Infine propone una visione sull’evoluzione delle opere.
Per ciò che concerne ancora la critica e la valutazione prospettica ritengo che si tenda (purtroppo) aprioristicamente a lavarsene le mani. Ci sono molte storture ideologiche.

L’idea che si possa valutare solo il singolo poeta nella sua eccezionalità, singolarità, unicità, è un facile espediente per non affrontare la questione dei modelli, dato che la poesia coltiva per sua natura degli strumenti retorici e metrici, e non si può non rilevare modelli da alcune correnti, come, ad esempio, il Surrealismo. Mi è chiara la problematicità di proposte critiche di questo genere, che possono non tenere conto delle somiglianze tra modelli, inventandosi di fatto un nuovo, che pare essere più moda del momento.

Anche l’idea che debba essere privilegiato il laboratorio di un critico, o di una serie di critici, che le storicizzazioni siano i frutti privilegiati di una dialettica tra riserve indiane, è antitetica alla ricerca sulla poesia. Spesso una esigua schiera di critici e poeti solidali si vuole erigere a corrente artistica in modo simile alle avanguardie, ma utilizza la parola movimento senza motivo, pone le categorie critiche a un livello superiore rispetto ai testi poetici, decretando siano esse a dover spingere i poeti verso una direzione precisa, e tutto ciò accade senza un contesto sociale e politico di supporto (mi viene in mente quando si parla della poesia di ricerca in abbinamento alla Neoavanguardia, ma anche quando si generalizza sulle poetiche legate a pratiche di palcoscenico o performative).

I curatori di questo volume sono partiti dal territorio e dai suoi poeti (qualcuno la chiama Geocritica). Ci siamo incontrati in occasione del numero della rivista Argo del 2008, dove alle oscenità italiane (festini a luci rosse dei potenti, ecomostri, compravendite immobiliari dei partiti, problema dei rifiuti, questione degli appalti) i redattori avevano contrapposto alcune opere dialettali, frutto di una breve ricerca, poesie che partendo dalle lingue di un territorio si può dire che tendessero a salvaguardarlo.

Dopo questo incontro, sono stato chiamato a far parte della redazione di Argo: ci siamo resi conto che la scena poetica dialettale necessitava di una più ampia ricognizione, per comprendere le ultime tendenze, anche alla luce di alcune esperienze negli anni ‘90 – e voglio citare la rivista Baldus, anche se come ha fatto notare recentemente Villalta (5 marzo 2015, Biblioteca di Pordenone), il tentativo di dar vita a una post-avanguardia e a una ricerca a partire dal dialetto per rivivificare la produzione italiana e il dibattito culturale della poesia è stato un tentativo artificioso, rilievo su cui non posso che essere d’accordo.

Organizzazione della ricerca, organizzazione dei risultati

Questa antologia – e mi viene in mente il percorso critico del mio concittadino Gillo Dorfles – si occupa di indagare l’evoluzione artistica, e lo fa in modo rigoroso, appunto, sui dati di una ricognizione di 5 anni, aiutata dal bando pubblicato sul sito della rivista Argo, una campagna pubblicizzata tra i social network, che hanno anche risposto ad un questionario particolareggiato, poi archiviato sul sito di Argo.

L’antologia è stata suddivisa in due parti.

La prima si occupa dei poeti nati prima degli anni ’50 dal titolo Pezzi di Memoria. E’ stato necessario creare questa sezione perché la ricerca condotta da Brevini aveva trascurato nel volume edito da Mondadori alcune voci significative, in particolare gli autori del sud e le donne: ci siamo sentiti in dovere di introdurre questi profili per generare una discussione rispetto la stagione neodialettale che Brevini ha delineato.

La seconda parte (la produzione dei poeti nati dal 1950 in poi) è stata suddivisa regione per regione, e ulteriormente divisa tra poeti con introduzione e poeti senza introduzione. Da un lato volevamo infatti produrre dei profili critici per i poeti la cui storia personale era di tutto rispetto dal punto di vista quantitativo (produzione di libri) e qualitativo (i cinque curatori dovevano essere tutti d’accordo sul profilo del poeta per l’elaborazione dell’introduzione), dall’altro fornire al lettore anche una mappatura, che è sovrapponibile per un buon 90% a tutti i poeti visionati (ci sono state pochissime esclusioni, la maggior parte dovute alla quantità scarsa dei testi inviati). Siamo convinti che questa antologia è rappresentativa delle voci dialettali migliori, e ha spinto molti poeti che non conoscevamo a scriverci, che ci fa piacere perché il suo aggiornamento produrrà un’opera ancora più completa.
Il criterio che abbiamo utilizzato per dare l’introduzione alle produzioni dei poeti nati dopo il 1950 , oltre la condivisione del gusto personale (i cinque curatori dovevano essere tutti d’accordo)  è, nella regione di riferimento, anche la quantità di opere pubblicate.
Di conseguenza le regioni che hanno più poeti di valore, tra cui la Sicilia e il Friuli – Venezia Giulia, sono risultate penalizzate nelle voci più giovani, i nati negli anni ’60 e ’70. Ad esempio, in Friuli -Venezia Giulia abbiamo dovuto dare precedenza a Pierri, Tavan, Vallerugo, nati prima del ’50, e Di Monte, Vit, Villalta e Crico, nati negli anni ’50.
Avrebbero probabilmente meritato un profilo Lorenzini, Moratto, Cappello e Grubissa, ma la quantità di opere prodotte fino al 2012 era, in alcuni casi, molto più scarsa. La stessa cosa vale per Aglieco, Cavasino e Bonanno, in Sicilia, dove abbiamo scritto prefazioni a S. Basso, Battaglia, De Vita, Guerrera e Pennisi.

 

Dal punto di vista dell’introduzione generale, abbiamo rilevato
– Somiglianze nella formazione delle opere o tendenze della formatività ;
– la rilevanza sociale, il punto di vista sulla società, la dimensione politica, della poesia;
– le opere che più si sono discostate dai primi due gruppi di poetiche rilevate, è perché sviluppavano un’opera – teoresi, ampliando la riflessione filosofica, a partire dalla natura e/o dal quotidiano.

Tendenze della formatività, lavoro su politica o società, l’espressione di una teoresi.

1.

Sulla formatività e le sue tendenze abbiamo rilevato il tema centrale dell’idioletto, ovvero la formazione di un’opera attraverso la formazione di un linguaggio ad hoc. La schiera di poeti che lavora in tal senso è molto numerosa.
Voglio citare i poeti di area campana che forse grazie alla rivista Baldus hanno sperimentato in questa direzione: Baino, Cepollaro, Forlani (* un appunto su Domenico Ingenito, che stranamente compie un percorso poetico simile anni dopo, anche se non lo abbiamo potuto inserire nell’antologia, essendo uno dei collaboratori che ci hanno aiutato con in profili); questi poeti inventano un’opera attraverso l’invenzione di un linguaggio tout court.
Sempre discutendo di idioletto, abbiamo potuto verificare processi di ibridazione tra italiano e altre parlate (Lo Russo, Simon Ostan), tra parlate della stessa lingua (in veneto, Fiolo, Sandron); si cimentano nel recupero di parlate che subiscono l’onda d’urto dell’italiano Brancale (lucano), Bulfaro (milanese), Cavalera (galateo) e Rentocchini (modenese), con modalità espressive diverse dalle canzoni ai dialoghi, dal limerick alle ottave.
Voglio citare il lavoro di Villalta che nel libro Vose di Vose trasporta le problematicità del lavoro sul linguaggio e del recupero delle lingue nei luoghi di una società compromessa da cementificazioni, urbanizzazioni, sradicamento.

Per ciò che concerne la questione dell’idioletto, posso dire che in generale il processo di formazione di questi poeti ha anche la tendenza a verificare come la natura astratta del linguaggio si comporta nei “pressi” delle sue possibili capacità comunicative, e anche quando si tratta di un’invenzione del linguaggio vera e propria, si possono rilevare tecniche oggi più affini al teatro e alla canzone, anche se, in fondo, tecniche della poesia da sempre.

 
2.

Più semplice è l’impatto comunicativo dei poeti che si occupano della società in senso politico, con una messa in relazione tra la realtà e i processi comunicativi, spesso vissuti attraverso contrasti e forti opposizioni, con una discussione sulla stessa comunicazione sfruttata dai processi economici, un linguaggio globalizzato che marginalizza le culture e gli altri linguaggi. Trovo molto interessante la quantità di poeti politici: Masala, Franzin, Nadiani, Borrelli, Vit, Guerrera, Grubissa, per non parlare della poesia satirica in Di Stefano e Pierri, del tutto trascurata nelle antologie precedenti alla nostra.

3.

I poeti che più si discostano da queste due prime categorie che qui ho abbozzato nei miei appunti, e che condividono la riflessione a partire da un’istanza filosofica che, rubando un termine all’informatica, processa la formatività sono Pasero, Crico e Moratto con una sorta di astronomia sensibile tra natura e linguaggio, S. Basso e Brancale con una riflessione escatologica, il simbolismo in Cappello e Teodorani.


L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti italiani in dialetto e in altre lingue minoritarie tra Novecento e Duemila

a cura di Manuel Cohen, Valerio Cuccaroni, Rossella Renzi, Giuseppe Nava, Christian Sinicco

ed. Gwynplaine, coll. Argo, pp. 745, € 20

Dal 10 settembre l’opera è disponibile in libreria, alle presentazioni del Tour ed è ordinabile via e-mail, scrivendo a argo@argonline.it

Rassegna stampa

Tour

Gli autori e le autrici

Sono presenti nell’antologia: Sebastiano Aglieco, Paola Alcioni, Antonella Anedda, Lino Angiuli, Mariano Bàino, Annamaria Balossini, Dina Basso, Salvo Basso, Giuseppe Giovanni Battaglia, Giuseppe Bellosi, Maurizio Benedetti, Rut Bernardi, Remigio Bertolino, Angela Bonanno, Michele Bonavero, Paolo Borghi, Mimmo Borrelli, Domenico Brancale, Luigi Bressan, Rocco Brindisi, Dome Bulfaro, Maddalena Capalbi, Pierluigi Cappello, Maurizio Casagrande, Nadia Cavalera, Rino Cavasino, Luciano Cecchinel, Biagio Cepollaro, Ombretta Ciurnelli, Pietro Civitareale, Ivan Crico, Lia Cucconi, Daniel Cundari, Azzurra D’Agostino, Gianluca D’Annibali, Nino De Vita, Nelvia Di Monte, Francesco Di Stefano, Lussia Di Uanis, Bianca Dorato, Nicola Duberti, Germana Duca Ruggeri, Carlo Falconi, Anna Maria Farabbi, Renzo Favaron, Assunta Finiguerra, Ulisse Fiolo, Francesco Forlani, Fabio Franzin, Francesco Gabellini, Antonio Gasperini, Francesco Gemini, Gabriele Ghiandoni, Omar Ghiani Saba, Gianfranco Miro Gori, Francesco Granatiero, Franca Grisoni, Barbara Grubissa, Alessandro Guasoni, Biagio Guerrera, Maria Lenti, Rosaria Lo Russo, Canio Loguercio, Andrea Longega, Luigina Lorenzini, Dante Maffia, Gabriella Maleti, Marcello Marciani, Alberto Masala, Mario Mastrangelo, Vincenzo Mastropirro, MaurizioMattiuzza, Andrea Mazzanti, Gigi Miracol, Marino Monti, Stefano Moratto, Vito Moretti, Giovanni Nadiani, Maurizio Noris, Piero Simon Ostan, Alfredo Panetta, Cetta Petrollo Pagliarani, Salvatore Pagliuca, Dario Pasero, Renato Pennisi, Ugo Pierri, Gabriele Alberto Quadri, Claudio Recalcati, Emilio Rentocchini, Flora Restivo, Vito Riviello, Giuseppe Rosato, Anselmo Roveda, Giacomo Sandron, Flavio Santi, Francesco Sassetto, Marco Scalabrino, F abio Maria Serpilli, Achille Serrao, Nevio Spadoni,Federico Tavan, Annalisa Teodorani, Pier Mattia Tommasino, Marilisa Trevisan, Laura Turci, Giovanni Tuzet, Pier Franco Uliana, Ida Vallerugo, Gian Mario Villalta, Damiano Visentin, Mirko Visentin, Giacomo Vit, Lello Voce, Rosangela Zoppi, Edoardo Zuccato

I curatori

Il cantiere dell’antologia L’Italia a pezzi è stato avviato, in collaborazione con critici letterari ed esperti del settore, dai redattori di Argo Manuel Cohen, Valerio Cuccaroni, Rossella Renzi, Giuseppe Nava e Christian Sinicco (che hanno curato anche l’archivio su Argonline) con lo scopo di realizzare un’opera di poesia che faccia riferimento alle lingue minoritarie e ai dialetti: un’operazione che possa, grazie alla creazione di un archivio permanente e in continuo aggiornamento, rispecchiare nel modo più completo ed esauriente il panorama della produzione delle parlate della poesia contemporanea, presenti sul territorio italiano.

I collaboratori

Nel frattempo, ringraziamo i tanti Autori che ci hanno inviato i loro testi e coloro i quali ci hanno aiutato a raggiungerli e valorizzarli, tra cui Maddalena Bergamin, Vincenzo Morvillo, Alessandro Burbank, Domenico Ingenito, Gianmario LuciniSilvia Rosa, Francesco Terzago e Julian Zhara, che hanno firmato alcune prefazioni, costruendo assieme ai redattori di Argo l’ossatura del progetto de L’Italia a pezzi, nonché un team pronto anche per altre avventure poetiche.

Poesia del nostro tempo

grecia_Louisa GOULIAMAKI.jpg
 

A protester sits on a fountain after inhaling tear gas during massive clashes at the central Athens Syntagma square on June 15, 2011. Thousands of protesters ringed the Greek parliament building on Wednesday as the government tried to push through its emergency package inside and a general strike paralysed the country. Photo by Louisa Gouliamaki

 

Poesia del nostro tempo è il titolo scelto per Argo – Annuario 2015.
Con questa pubblicazione Argo intende approfondire il discorso critico sulla poesia contemporanea e iniziare un percorso di formazione e di informazione del pubblico. Il desiderio è segnalare, anno dopo anno, il dibattito culturale, evidenziando le differenze tra i generi della poesia e sottolineando i titoli da acquistare nelle librerie, senza trascurare il concetto enorme delle realtà politiche e sociali che i poeti si trovano a vivere.
Per questo motivo sono state raccolte, attraverso interviste, analisi e traduzioni, le voci dei poeti che vivono in zone di crisi geopolitica e le riflessioni dei poeti italiani sul periodo storico che stiamo vivendo.

Per l’Annuario 2015 mi sono occupato della prima sezione dal titolo Vicini alla realtà, non senza alcune difficoltà. Il perché è chiaro, sono anni che è così, la poesia in Italia vive come anestetizzata dalle polveri di un forannuario2015malismo, spesso residuo o scarto delle posizioni teoriche delle avanguardie, movimenti che però avevano come sfondo la realtà, nella sua complessità politica, e non solo formale. Non solo, non possiamo attribuire alla sola critica impegnata a salvaguardare se stessa in un circuito di abili rimandi al recente passato letterario la sorte della poesia italiana. Si tratta di questo, i poeti e i critici si sentono una élite: ho sempre trovato questo atteggiamento come insopportabile, come se non nascessimo tutti dallo zero della forma. Trovo che la gente non creda più alla poesia per colpa dei suoi molti elitarismi, del troppo egotismo e autoreferenzialità a tutti i livelli del sistema letterario.
Tuttavia i poeti più grandi sono anche intellettuali attenti, capaci di ritagliare il presente, scomporlo, comporlo nuovamente, facendo emergere quella visione del mondo in cui si approfondiscono l’esperienza della lingua e della cultura e la sensibilità umana, dando alle generazioni il modo di collaborare nella direzione della bellezza, della conoscenza e dell’apprendimento. Mi piacerebbe dare un nuovo titolo alla sezione che ho curato, Nella direzione della bellezza: credo che sarà questo a motivare la mia ricerca nei prossimi anni.

La navigazione di questo primo Annuario è partita dall’Italia: Alessandra Giappi ha ricordato la strage di Piazza della Loggia, discutendo alcune opere di Mario Luzi. Carlo Bordini ha riflettuto sul nostro periodo storico e sulle miopie della politica europea e mondiale. Massimo Zamboni, storica figura del rock italiano ed ex componente di CSI e CCCP, ha donato i versi che parlano della “Rotta” del nostro paese, canzone-poesia interpretata da Angela Baraldi, ascoltabile dallo smartphone grazie ai QR CODE presenti sul libro.
Non potevano mancare poeti provenienti da paesi attraversati da forme diverse di conflitto, come la Turchia, dove abbiamo intervistato il presidente del Festival Internazionale di Poesia di Istanbul Adnan Özer e la giornalista Müesser Yeniay, e la Grecia, con un percorso tra le poesie di Katerina Anghelaki Rooke, Yiorgos Chouliaras, Stamatis Polenakis e Hatto Fischer. In Israele ci ha colpiti la riflessione di Hilà Lahav, che pone l’attenzione sui movimenti che desiderano la pace tra israeliani e palestinesi.
Sono state fonte di meditazione le parole dell’irachena di origini cristiane Dunya Mikhail, perché il Medioriente non è il luogo del califfato islamico, della distruzione e della rovina, ma quello dove le comunità di fedi e culture diverse, nel tempo, sono riuscite a convivere.
Uno spaccato del Mediterraneo l’abbiamo trovato nelle poesie del maltese Adrian Grima, che ha tracciato nei suoi versi la criticità della migrazione, mentre il nigeriano Chijioke Amu Nnadi ha posto l’attenzione sulla cultura africana e sulla poesia del suo paese, anch’esso aggredito dall’estremismo.
Nonostante investa la nostra coscienza di occidentali, si è deciso di puntare la lente sul rap inglese, grazie all’indagine svolta da Emilio G. Berrocal sui cantanti che sono andati a combattere in Siria e Iraq.
Dall’Afghanistan Analysts Network, è stato tradotto un articolo di Borhan Osman sulla comunicazione che avviene proprio grazie a una forma di poesia, i distici in pashtun, che gli afgani usano disegnare sui teloni dei TIR, rimandando sia a temi di amore che di politica.
Grazie agli articoli presentanti, alle parole e ai versi degli autori che hanno portano qui la loro testimonianza, l’Annuario si è posto l’obiettivo di rivedere quel ruolo e quel peso sociale, della poesia e della figura del poeta, che si è dissolto nell’Italia degli ultimi trent’anni. Si è trattato di esplorare la realtà attraverso un viaggio fatto tra i poeti, perché sono essi i più vicini al linguaggio del nostro tempo.

Tutte le informazioni su Argo – Annuario 2015 – Poesia del nostro tempo: qui

Le anteprime audio dell’Annuario: qui

Gli articoli dell’Annuario in rete su:

Mario Benedetti, Nuovi Argomenti

Chijioke Amu Nnadi, Argo

Nelle ferite della critica, la discussione sulla nuova poesia italiana

oltre ipertelia, ipostasi, standardizzazione

Se ci fosse un’esperienza che la poesia potrebbe riferire, sarebbe di sicuro qualcosa di più delle umane lettere e dei loro tecnicismi: questo pare dire Lorenzo Carlucci in un’articolo scritto in occasione dell’incontro del 4 Ottobre del 2010, “Identità concettuale e dilatazione dell’istante” presso la Tokyo University of Foreign Studies, ripubblicato recentemente su poesia2punto0.com.

In “Note sull’influenza della Neoavanguardia italiana sulla mia poesia”, Carlucci contrappone alla “poesia quale mimesi della schizofrenia universale” cioè “della modalità d’esistenza in cui sono altrettanto impossibili la soggettività e l’oggettività del mondo” (Giuliani, 1965) una “poesia-espressione della facoltà sintetica e analitica del soggetto trascendentale”, ovvero una poesia “come espressione dello stato in cui sono altrettanto necessarie la soggettività e l’oggettività del mondo”.

Leggendo la poesia di Carlucci in La Comunità Assoluta (Lampi di stampa, 2008), ci si rende conto delle diverse possibilità formative che il poeta utilizza: stupiscono i dialoghi e la prosa poetica, uniti a una logica che rimbalza alla ricerca del paradosso; spesso raggiungiamo l’oltrecielo di sanguinetiana memoria potrebbe sembrare una provocazione se consideriamo le reazioni all’articolo del poeta romano – al termine di una discussione o per via di un racconto in versi che proietta il quotidiano sulla società, vissuta intimamente nelle sue ferite e meraviglie, ma anche riferita con ironia e sarcasmo.

Carlucci sa – e lo sanno in molti – che alcune impostazioni critiche della Neovanguardia erano state di fatto superate da esponenti della stessa, come Antonio Porta, o lo stesso Sanguineti. Carlucci oltrepassa la dicotomia lirismo – antilirismo, poiché la sua formatività oltrepassa l’esperienza neoavanguardista, ma si può affermare che diversi autori si situino oltre fatti che la critica vorrebbe imporre come normativi, come l’adesione agli intenti di Giuliani. La critica non può imporre canoni, semmai rilevare delle novità.

Ho notato di recente delle giornate di studi a Roma, unite a delle letture, con il critico Massimiliano Manganelli, chiamate Nuovi Oggettivismi: mi pare che la critica rischi di non rilevare novità, ma di cortocircuitare nella discussione su tecniche, quali un oggettivismo che in scrittura dovrebbe rappresentare le cose nei modi più obiettivi o con le tecniche più obiettive possibili, ma che non possiede la rilevanza sociale dell’azione degli artisti negli anni ’20 (nonché l’accezione obiettivo dopo la teorizzazione di Thomas Pavel in Mondi di invenzione e il libro di Wallace Stevens Note attraverso la suprema finzione, dovrebbe essere reinventato, proprio partendo dalla poesia e dai metacontesti teoretici e narrativi, cioè l’interpretazione soggettiva di un contesto scelto dal poeta che produce i suoi effetti nella formazione dell’opera, le idee che orientano il poeta durante il processo formativo, che elaborano, riarticolano, stratificano l’opera nel tempo). La critica – non sto pensando solamente all’incontro romano sui nuovi oggettivismi – appare immersa nel postmoderno o del tutto impreparata dal punto di vista delle novità; trascura semplici lezioni, quelle legate alla Teoria della Formatività di Luigi Pareyson o le note riguardanti l’ideologia di Pasolini. Nel caso citato non potremmo nemmeno riportare, come nell’articolo di Carlucci, le parole di Dorfles a proposito dell’“ipertelia” (certi aspetti tecnici come le tecniche combinatorie sono o non sono “usurati” se in relazione al solo nuovo oggettivismo?): “Un fenomeno opposto, ma analogo, è quello che potremmo definire dell’ipertelia; quando, cioè, non sia più l’impiego di tecniche o di forme artistiche usurate, ad aver luogo, ma anzi l’uso di una tecnica nuova e pressoché inedita, sperimentale dunque, di cui si esageri la funzione, si esalti la finalità”.

La problematicità è legata alla critica che sostiene opere “ipostatiche”: il rischio è di far leggere gli strumenti (teoresi, tecnicismi, etc) come sussistenti per se stessi nelle opere… Desidero risignificare il termine ipostasi anche per indicare la stagnazione delle molteplici possibilità interpretative che una formatività dovrebbe produrre, di fatto mortificando l’opera con alcune teoresi-processi di scrittura, spesso riconducibili a operatività già conosciute, codificate (magari si trattasse dell’ipertelia descritta da Dorfles). La verve polemica di Carlucci è indirizzata agli scrittori del sito GAMMM, presenti in buona parte anche nell’antologia curata da Vincenzo Ostuni, Poeti degli Anni Zerotesto utile per comprendere il percorso di alcuni poeti, che pare prendere spunto dal lavoro di Andrea Cortelessa, Narratori degli Anni Zero: peccato per alcune stonate note della prefazione ostuniana, quali l’oralità, i percorsi performativi e le magnifiche sorti all’estero degli autori antologizzati, tutti aspetti trattati con superficialità e assenza di fatti.

Si potrebbe pensare che testualità ipostatiche (presenti in Poeti degli Anni Zero) siano quelle di Marco Giovenale, Massimo Sannelli e Michele Zaffarano, dove le tecniche di assemblaggio avvengono sotto forma di accumulazione, anche se alcune prove e aspetti tecnici hanno carattere di interesse.
Oltre le ipostasi generate dalle tecniche, i problemi riguardano anche la “standardizzazione” dell’operatività, cioè la replicazione da parte dei poeti delle stesse funzionalità, opera dopo opera: se va bene, le opere di un poeta appaiono come variazioni da un modello. Alcuni esempi: la ripetizione del ritmo in Maria Grazia Calandrone (sempre presente in Poeti degli anni zero), il manierismo dell’ultimissima Tiziana Cera Rosco (in Dio il Macedone si evidenzia un’abbondante aggettivare, già presente nelle altre raccolte, ma esasperato), le tecniche accumulatorie di Milo De Angelis (l’accumulazione di lacerti unitamente all’utilizzo sistematico di ripetizioni poco variate) e in Andrea Inglese (purtroppo a discapito della sintassi, anche perché attenuata la spianata accumulatoria, la poesia pare presentarsi; anche Inglese è presente nell’antologia di Ostuni); infine, non solo nel campo della sperimentazione, le leggere variazioni dalla mimesi del quotidiano nelle prime due opere di Massimo Gezzi.
Recentemente il poeta Roberto Cescon, discutendo di pratiche accumulatorie e di replicazione di modelli, ha abbozzato l’ipotesi che questo sia relazionato a ciò che Edgar Morin definisce il dialogo dell’industria culturale, nella deriva di una civiltà della comunicazione che produca un’incessante quantità di informazioni spesso standardizzate: la mia impressione su questa ipotesi è che i poeti, in generale, non meditano i feedback dell’ambiente culturale, preferendo l’adesione a formule che confezionano spesso da sé. Quindi non si tratta solo della civiltà della comunicazione di oggigiorno, ma anche di un impoverimento quantitativo e qualitativo del lavoro di critica (e di autocritica) del poeta in relazione al dialogo dell’industria culturale, senza la comprensione di esserne in fin dei conti l’esecutore perché i processi mimetici si sono impadroniti dell’identità autoriale. Nel 2003 in La poesia e la giovane poesia nell’età del web su Fucine Mute scrivevo che per rispondere “all’evoluzione dell’industria culturale ci sarebbe voluta […] gente veloce ed educata al dialogo tra conoscenza e azione, uomini capaci di individuare la cornice in cui si svolge il dialogo dell’industria culturale e, astratti i fatti, uomini capaci di modificare attivamente gli aspetti della cornice” e mi riferivo all’accelerazione dei processi di comunicazione tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta. Ipotizzavo che i feedback del web, osteggiati da lobby, bastassero a costruire un ambiente culturale migliore – e mi sbagliavo poiché nel 2006 le dinamiche nei blog e tra i poeti mimetizzavano pratiche lobbyste e autoreferenziali, come descritto in “La nuova poesia in Italia?” su AbsolutePoetry.

La critica credo non si accorga del fenomeno legato alla standardizzazione e i poeti non ne sono consapevoli, non sono consapevoli di produrre opere-replicanti in una cornice che contrappone piccole lobby in attesa di essere ricevute al cospetto di un qualsiasi mainstream dell’industria culturale. La situazione per la critica è peggiorata progressivamente: fatica a leggere le opere, osserva solo se stessa e i propri apparati comunicativi, è colpevole di mimetizzare la stessa accumulazione di informazioni standardizzate, anche attraverso operazioni di marketing supportate da articoli di critica letteraria. Le più importanti di questi anni presentano un’assenza di quadri estetici di riferimento, come l’iniziativa “Un secolo di poesia”, lanciata dal Corriere nel 2011, che anche Lello Voce cita nell’articolo “E’ Natale: Il Corsera fa poesia!” o, più in piccolo, il lancio sulla rivista Poesia di gennaio 2007 di un libro di Aldo Nove, all’epoca fortemente criticato su AbsolutePoetry dall’attore e poeta Nevio Gambula: Nicola Crocetti, editore di Poesia e curatore per il Corriere dell’operazione, ha dimostrato di essere un esperto di marketing, ma in entrambe le occasioni sarebbe andata meglio senza gli scritti dei critici.
Un’altra strategia è cercare di ottenere visibilità attraverso una serie polemica sui giornali (già sui blog la pratica era conosciuta, al punto che il battibecco su aspetti irrilevanti della letteratura veniva utilizzato sistematicamente per alzare le statistiche dei portali). La polemica susciterebbe più interesse della discussione su un testo, questo è quello che i poeti e i critici hanno compreso: possiamo prendere ad esempio quella che recentemente ha coinvolto Matteo Marchesini, Roberto Galaverni e Alfonso Berardinelli (su Le parole e le cose, il commento e il riepilogo di Andrea Cortellessa), riguardo l’antologia “Nuovi poeti italiani 6”, pubblicata da Einaudi: la discussione verte sul fatto che nell’antologia a essere presentate siano solo poetesse.
Risultano emblematiche le parole di Sonia Caporossi di “Critica Impura” su facebook a proposito di questi (e altri) diverbi: “Il vecchio principio del textus prima di tutto, travisato in tempi di rifiuto per strutturalismo ortodosso – quando invece poco ha a che fare con quelle costrizioni analitiche consistendo nell’unica ermeneusi davvero onesta che possa dare frutti -, ha lasciato il campo alla polemica sterile da pollaio fatta apposta per creare polverone. Lo scrissi a suo tempo circa la polemica Ostuni – Carabba, lo ripeto ora. Ovvio che, con questi chiari di luna, l’autoritarismo venga scambiato per autorità, e l’auctoritas pretenziosamente ne risulti il fenotipo avvilente. Qua toccherebbe fare proprio tabula rasa e tornare, innanzitutto, a LEGGERE”.  Caporossi discute il senso di questo ricercare visibilità che non presenta i testi e che circuita nelle citazioni tra critici; cita poi la polemica tra Carlo Carabba e Vincenzo Ostuni, di cui ha scritto su “Critica Impura”; modi di fare, questi, che purtroppo non rappresentano più un’anomalia dal punto di vista della prassi comunicativa della critica letteraria (per un confronto con un’altra analisi, la polemica Ostuni-Carabba è stata ben riepilogata anche da  Daniele Barbieri su Guardare e leggere).

Il problema è che tutti possono dire quello che vogliono, facendo esempi difficilmente verificabili dal fruitore/lettore; si può parlare bene di poeti che, molto spesso, fanno parte del circolo ristretto di conoscenze e creare una serie di rimandi. Il testo prima di tutto, è l’invocazione giusta, unito a una ricerca sistematica e ampia.

L’antologia ostuniana amplifica i problemi della critica (segue a un’altra antologia, Prosa in Prosa , segue a una serie di letture chiamate Poesia di ricerca 1 e 2, segue alla nascita pur interessante del sito GAMMM, delle pubblicazioni su Per una critica futura, e anticipa queste giornate sui Nuovi oggettivismi; si può affermare che ci sia un circuito di conoscenze, osservabili nel corso del tempo) nonostante le cautele della prefazione. Tuttavia, essendo costruita bene attraverso una serie di testi presi ad esempio, chiarisce anche l’attitudine di alcuni poeti alla standardizzazione e all’ipostasi.
Problemi simili sono rintracciabili in modo più sottile, nella stessa antologia, nelle tecniche di miniaturizzazione del verso in Elisa Biagini e nella replicazione di un linguaggio straniante in Laura Pugno. Problemi sono rintracciabili anche in altri ambienti, come nel lavoro legato all’oralità nei ritmi di Luigi Nacci (dove sperimenta tecniche accumulatorie e, per fortuna, in minima parte nella formatività legata allo studio degli accenti) o nell’accumulazione di descrizioni nelle poesie in italiano di Pierluigi Cappello. In generale, il sistema di relazioni all’interno dell’opera perde di intensità a causa delle strutture, delle tecniche, delle pratiche di scrittura utilizzate, ed è il lavoro sulla sintassi quello più penalizzato, soprattutto dove le tecniche non si misurano con la logica e i suoi fatti nella formazione dell’opera.

Le pratiche metamorfiche di alcuni poeti delle nuove generazioni, ci indicano una nuova direzione di ricerca critica e una serie di cautele. Per metamorfismo intendiamo un lavoro formativo atto, raccolta dopo raccolta, periodo dopo periodo, a mettere in discussione le funzioni che la poesia dovrebbe svolgere, provocando differenze apprezzabili tra le opere. La critica, conscia della possibilità dei poeti di operare da una grande variabilità di moduli letterari, dovrebbe sostenere una discussione sui metamorfismi più che sugli oggettivismi, già superati e archiviati dalla Neoavanguadia, con un occhio a ipostasi e standardizzazione, tra i problemi più rilevanti (si veda l’articolo, Poetiche: nuove operatività).

Come Carlucci, anche altri autori si muovono praticando il metamorfismo.

Biagio Guerrera in Cori niuru spacca cielu (Mesogea, 2008)passa da un registro lirico a uno prosastico e ritrova la poesia “civile”, proprio a partire dalla sua città, Catania, che resta perennemente sullo sfondo, tra i ragazzi di strada e le problematiche sociali.
Forse è tutta l’opera di Roberta Bertozzi ad essere percossa da spinte di continua innovazione, e i predicatori del minimalismo datato avranno paura di farsi “snervare” da una poesia che trasforma la lingua di Ungaretti in poema suggestivo e visionario, frammentato e fortemente evocativo, nonché narrativo: l’opera Gli enervati di Jumièges (Pequod, 2007) prende spunto dalla storia del re merovingio Clodoveo II che, dopo aver bruciato i tendini suoi figli (accusati di essersi ribellati alla madre reggente, mentre questi era in guerra), li abbandona mezzi morti su una zattera in balia dei flutti della Senna.

La scena è molto ampia, come si addice a un paese di 60 milioni di abitanti, ma si potrebbero rintracciare fatti critici analoghi (forse anche gli stessi problemi) in poeti che negli anni precedenti hanno scritto opere interessanti, che meritano la stessa attenzione di queste ultime proposte: mi riferisco a Stefano Massari, Florida Fusco, Matteo Danieli, Tiziano Fratus, Gianmaria Giannetti, Tommaso Lisa, Adriano Padua, Martino Baldi, Jacopo Ricciardi, Silvia Cassioli, Gian Maria Annovi, Barbara Pietroni, Silvia Salvagnini, Simone Molinaroli, Gabriele Iarusso, Furio Pillan, Maria Valente, Vincenzo Ostuni, Giacomo Sandron, Alberto Mori, Stefano Lorefice, Domenico Brancale, Giovanni Tuzet, Daniele Mencarelli, Piero Simon Ostan, e i più giovani Giuseppe Nava, Franca Mancinelli, Davide Nota, Alessandro Burbank, Alfonso Maria Petrosino, Giulia Rusconi, Domenico Ingenito e Francesco Terzago; nonché altri autori in lingue minoritarie o dialetti tra i quali Fabio Franzin, Mariano Bàino, Nadia Cavalera, Alberto Masala, Giovanni Nadiani, Federico Tavan, Alfredo Panetta, Gianmario Villalta, Ivan Crico, Lussia di Uanis, Stefano Moratto, Luigina Lorenzini, Angela Bonanno, Dario Pasero e Annalisa Teodorani e moltissimi altri.

Articolo pubblicato in forma ridotta su “Through the lens” su wordpress

Poetiche: nuove operatività

Nel 1984 su Poesia della metamorfosi – Antologia e proposte critiche a cura di Fabio Doplicher (Stilb, Roma) viene pubblicato un saggio di Piero Bigongiari dal titolo “Poesia della metamorfosi o metamorfosi della poesia?”: a interessare è il metamorfismo dei poeti; raccolta dopo raccolta, periodo dopo periodo, questi mettono in discussione le funzioni che la propria poesia svolge; e provocano differenze tra quello che scrivono, consci della possibilità di operare da una grande variabilità di moduli letterari, di concetti o di ideologie, di possibilità per trasformarsi i processi di formazione dell’opera; consci della continua leggibilità dell’opera, non solo nel tempo e nello “spazio che l’ha vista nascere, ma nelle condizioni storiche continuamente diverse in cui si traspone, traspone il suo moto stellare di senso”.

Il tema del metamorfismo, come esposto da Bigongiari, amplia la sfera di intervento del concetto “poesia” nella realtà, coglie con lucidità il lavoro compiuto nei decenni precedenti, prende nota di come le formatività (o processi di formazione) siano mutate, propone un punto di vista diverso al fine di oltrepassare i sistemi di critica novecenteschi, condizionando la critica militante a rivedere l’ambito di applicazione storicista. L’apertura di Bigongiari può costituire per noi un serio punto d’appoggio, per produrre effetti, conseguenze, cambiamenti negli apparati che svolgono l’attività di critica.
La questione delle ideologie (se vogliamo delle poetiche) era stata già affrontata da Pasolini, rispondendo ad una lettera tra il 1960 e il 1965, raccolta in “Belle Bandiere” (uscito postumo nel 1977 con un commento di Angela Molteni):

“Il linguaggio della poesia è un linguaggio a parte. Sua caratteristica interna e permanente è la diacronicità […] Ma se la diacronicità caratterizza tutto il linguaggio della poesia, costituendo, del linguaggio della poesia, una storia particolare, in ogni letteratura, tale diacronicità è tipica anche di ogni poesia singola. Il tempo della poesia è il remoto, l’imperfetto o il futuro. Il passato prossimo è impossibile (così com’è tipico nell’uso odierno dell’italiano): il presente è possibile come drammatizzazione del passato, ossia come presente storico. Anche il presente del diario, non è che una finzione: in realtà già l’animo del poeta è rievocante. Si direbbe insomma che la poesia deve reggersi sul mito del tempo: stendere un velo di tempo sulle cose dette, o passato o futuro. In tale diacronicità si può concepire la sua tendenziale metastoricità, altrimenti di tipo ambiguamente spiritualistico. Si capisce che la sua irrazionalità (che si concreta nel mito del tempo) è tale solo apparentemente: non è che una rievocazione o una predizione logica elittica. L’intuizione non è che qualche salto di pensiero logico. Ecco perché ogni atto poetico o genericamente intuitivo è sempre riconducibile ad una ideologia razionale.” Pasolini da una lettera datata 18 marzo 1965.

A sostenere l’impianto di queste prime impostazioni critiche propongo la lettura di “Estetica. Teoria della formatività” di L. Pareyson (saggio del 1954, ristampato da Bompiani nel 1988), che snocciola in modo impeccabile l’interazione tra il poeta (colui che fa), il processo di formazione, l’opera formata (risultato di tutte le scelte del poeta e di tutti gli orientamenti formativi che dalla stessa si sono presentati, proposti, generati) e le molteplici possibilità interpretative-esecutive dell’opera, che hanno a che fare con un’altra interazione, quella che vede il fruitore non solo come destinatario del “messaggio”, ma come ulteriore interprete, avvicinandolo al poeta poiché del tutto capace di dare vita all’opera stessa, eseguendola nuovamente e in diversi modi, ristabilendone i nessi.

La metamorfosi della formatività in poesia è un valore per la critica, oggi?
La critica fa fatica a comprendere i poeti capaci di evolvere significativamente la funzionalità delle proprie opere, a partire da nuove teoresi, anche se il discorso del metamorfismo potrebbe calzare perfettamente con il lavoro di alcuni autori della Neoavanguardia, ad esempio Pagliarani – sappiamo benissimo quanto gli studi semiologici hanno contribuito all’affermarsi del movimento e quanto l’ottica di Pareyson sia stata importante per molti semiologi.
Tuttavia, per gli studi contemporanei, le basi di estetica a cui dovrebbe riferirsi la critica, appaiono poco chiare, inficiando il risultato delle selezioni e delle operazioni di comunicazione/marketing della poesia.
Implicitamente la questione delle poetiche (assumo il termine di molteplici formatività, che risponde meglio alla mia impostazione) e il metamorfismo, si sono strutturati nella nostra esperienza di poeti e nella realtà tout court. Lo scatto che chiediamo alla critica, risponde a questa domanda: perché il metamorfismo e tutte le questioni legate alla formatività, dovrebbero essere importanti oggi? Forse perché l’autore dimostra – in un panorama non di 20 poeti, ma di migliaia di persone che scrivono – di possedere numerose opzioni di formazione dell’opera; dall’altro lato un’esperienza del mondo così veloce, con il moltiplicarsi delle informazioni, costringe a un labor maggiore, per i continui ripensamenti a cui sarebbe soggetta l’opera, il concetto stesso di poesia, e il suo demiurgo: l’offrire più opzioni formative ai “fruitori (esecutori/interpreti)” è necessario, quanto “il moto stellare di senso” delle opere, che hanno l’urgenza di possedere qualità non solo in un dato momento storico. L’articolo di Bigongiari, mette in relazione non solo la parte sociologica dei cambiamenti teoretici che nei decenni precedenti avevano investito la poesia, ma pure gli strati dell’elaborazione formativa che tengono conto del tempo e che attribuiscono all’opera qualità in grado di resistere alla “storia”, anche a quella che non riflettiamo, che parrebbe mancare, non farsi, oggi, triturata dall’informazione incessante e dai processi socio-economici. L’epoca in cui viviamo pone alcune implicazioni anche alla critica: non è più possibile ridurre l’ambito del suo intervento all’ideologia o poetica dell’autore in un dato periodo; l’opera ha bisogno di essere valutata, testata, su un continuum spazio-temporale, che considera i modelli, gli orientamenti, le teoresi e gli spunti come molteplici, prefigurando molteplici risultati e scenari. Queste premesse non garantiscono più alla critica letteraria “orizzonti culturali” – per usare un termine di cui si abusa – di semplice individuazione, di modelli e di movimenti facilmente individuabili. Tuttavia la critica non ne è delegittimata, ha solo bisogno di riconfigurare il proprio lavoro in maniera organica; la critica non può segregarsi, cortocircuitando nelle proprie categorie, farsi timida osservatrice del poeta e dell’opera che esprimerebbe già tutto non si sa bene il perché, o con vaghe mistiche pagine idolatriche, spesso immotivate. Critica, da dove ricominciare?
Per quanto mi riguarda, considerarò gli sviluppi che le pagine di estetica di Bigongiari e Pareyson hanno per me sul piano di un’ipotetica selezione, e prima di questo metterò in rete l’informazione e lavorerò in gruppo, per postare i testi dei poeti, i video, gli audio.
A proposito, molta informazione è già presente in rete – purtroppo questo strumento è ancora impensabile per certa critica.

La formatività come performance (che) continua

Pasolini nel parlare di “atto poetico” usa il termine “riconducibile” a una “ideologia razionale”: siamo in presenza di un processo formativo dove la “formatività logica” o le teoresi generano via via l’opera; va da sé che la critica possa supporre la presenza di questi orientamenti e cercare questi elementi attraverso le opere (al termine “ideologia razionale” preferisco i termini teoresi o “formatività logica”, poiché se devo descrivere il labor poetico mi troverò in presenza di una sfera di cristallo visionaria che monta e rimonta la storia, l’opera, i suoi elementi di finzione, e ne scopre i nessi, oppure li istruisce nuovamente; immagino questo, cercando di comprendere il processo di formazione e tutti i suoi passaggi, per giungere alle teoresi presenti; inoltre posso non introdurre la dicotomia razionale/irrazionale, poiché la logica può essere simmetrica (a=b, c=d, e questo varrà per un periodo prestabilito o per tutte le epoche e i tempi della nostra interpretazione) e può essere asimettrica, come nei sogni, ovvero attribuire a particolari simboli valori differenti in tempi e situazioni diverse, anche all’interno dell’opera formata; ma tutti gli aspetti di logica simmetrica e asimettrica sono riscontrabili nell’opera formata e il poeta ne è a suo modo attore, poiché il processo di formazione che utilizza considera il tempo, ed esso è il principale attore del cambiamento; processi di logica simmetrica e assimetrica sono riscontrabili nei sogni; Pasolini evoca la logica (simettrica/asimmetrica) nel suo articolo, riferendola al termine “ideologia razionale” che potrebbe essere fuorviante).
La ricerca delle procedure di formazione esplicita le opzioni e gli orientamenti, coordinati nell’atto dell’artista.
Durante la formazione dell’opera le scelte del poeta si coordinano con una materia/lingua in fase di modellazione, materia/lingua che comincia a essere rilevante via via per l’opera formata – questa altresì non è detto risponda perfettamente all’ideologia di partenza, per questo lo studio della formatività esplicita e descrive meglio le teoresi presenti.
La stessa formazione può risultare un processo fortemente performativo, dove la ripetizione/rifunzionalizzazione dei materiali esplicita numerose possibilità istantanee, percorribili dal poeta-performer, e quindi “riconducibili” dal critico a un processo formato da elementi che strutturano teoresi. Il fare del poeta ha poi le sue dovute ripercussioni in fase di “esecuzione/interpretazione” dell’opera formata, durante uno spettacolo, in una lettura pubblica, per mezzo di una lettura privata.
Il poeta nel processo di formazione può essere conscio di questo “atto” performativo, la cui durata non è limitata alla formazione? Il poeta agisce sull’opera, la modifica più volte in corso di formazione, ne è orientato: si potrebbe pensare che l’azione del poeta, tutto il suo labor formativo, sia anche un test. Ogni volta che ci lavora, o che riprende il lavoro, è una performance, e allo stesso tempo un test: la modifica in base all’ideologia di partenza, perché é stato travolto da nuovi orientamenti; può operare delle variazioni alla sua stessa ideologia, considerando i nuovi elementi; può cambiare il processo formativo scelto, rimescolare le carte, la sua casa può diventare a un tratto il caos, libri aperti ovunque, fogli sparsi, i vicini potrebbero udire delle grida, pianti, canti.
Durante il processo di formazione, il materiale prodotto e gli spunti non sono mai accessori, ma fortemente orientativi, e il processo di formazione (la stessa formatività dell’artista) accade, l’azione genera l’opera; il poeta è condizionato dal suo abituale modo di approcciare la formazione, ma non teme l’azione che genera l’opera, nemmeno quando dis-orienta la stessa ideologia/spunto di partenza – preciso questo perché poeti interessanti cadono vittime di impostazioni (teoretiche, ritmiche, metriche, etc.) che assumono nella formatività, le quali danno sicurezze e forniscono riconoscibilità, ma “ipostatizzando” l’opera formata: il rischio è di far leggere gli strumenti come sussistenti per se stessi.
La formatività è un territorio minato per il poeta: la sua performance, il cui risultato è l’opera formata, si spiega infine sul terreno dell’interpretazione/esecuzione.

L’artista, può intervenire numerose volte sull’opera, per salvaguardare le proprie teoresi di partenza, variando il processo, e può anche scegliere di variare in corsa la propria – direbbe Pasolini – “ideologia razionale” per salvaguardare aspetti della formazione emersi successivamente; attraversando tutta questa variabilità di orientamenti, l’artista “stratifica” i suoi atti nel corso del tempo e arriva all’opera formata.
Se il critico non può prescindere dalla ricerca di un’ideologia, dovrà ammettere che l’ideologia può mutarsi nel corso della formazione, e se è vero che la poesia risponde a diverse mitologie del tempo e dell’azione, è pure vero che il poeta e l’esecutore/interprete dell’opera (in ogni tempo e periodo storico) agiscono su questi cronometri.
Tutti questi atti del continuum spazio-temporale, reinterpretando Bigongiari che nella sua analisi si spinge oltre Pasolini (che ha rubato qualche termine a De Saussure), sono sia diacronici che sincronici.
Lo osserviamo durante la formazione/performance, lo osserviamo durante l’esecuzione (qualsiasi essa sia, anche una lettura privata) nelle relazioni che l’opera nuovamente tesse grazie a noi, da soli, o in scena, e lo osserveranno altri uomini e donne con nuovi occhi in altre epoche.
Sono determinato a eliminare definitivamente la possibilità di categorizzazioni come “poesia performativa”, “poesia che funziona in lettura”, “poesia di ricerca”, etc., su cui sono emerse negli ultimi anni delle polemiche sterili, non considerando la formatività del poeta e, almeno, un’estetica di riferimento.
La poesia, e tutto il suo fare, la sua formatività, nella mia accezione, sono tutti atti performativi dal primo verso consegnato all’opera, agli “stress-test” del poeta durante la formazione, all’ultima rilettura, anche quella “dantesca” di un liceale.

Istruzioni in corso d’operatività

Il caso italiano è certamente non privo di difficoltà. Viviamo in un paese che raggiungerà il traguardo dei 60 milioni di abitanti, la cui scolarizzazione ha fatto passi da gigante. I nuovi strumenti di comunicazione hanno già prodotto la proliferazione di contenuti, la moltiplicazione delle informazioni (per una riflessione ulteriore, “Cantie Balli” su fucine.com). La novità è che la ricerca è più semplice, grazie agli archivi prodotti (AbsolutePoetry, Poesia2punto0, Liberinversi,…); pare difficile la comprensione di ciò che è accaduto alla poesia dopo appena dieci anni di internet (si legga l’articolo di Valerio Cuccaroni “La poesia in rete 2.0, pubblicato dalla rivista Poesia e postato anche su Absolute Poetry), ma è solo un problema di organizzazione: non si sa a cosa serve ciò che è stato comunicato, non si comprende come possa farsi nuovamente produttivo.
Prendendo spunto da un articolo proprio su Anterem “Qual è il centro?”, che riguardava la poesia in relazione a internet, e da “Opzioni utopiche” su Absolute Poetry, metterei l’accento sulla possibilità di sviluppare “progetti” di ricerca sulla poesia, affrontando il territorio italiano, attraverso selezioni regionali, includendo anche i poeti italiani di Svizzera, di Istria e Dalmazia, ovunque siano presenti comunità di parlanti all’estero. Già questo lavoro viene anticipato da quello sulla poesia in lingue minoritarie (di ceppo latino, lingue/dialetti) del territorio italiano, promosso dalla rivista “Argo”; mancherebbe una sistemazione antologica per chi opera nella lingua italiana. La maggior parte delle selezioni antologiche degli ultimi 15 anni sono fallite per la mancanza di selezione a partire dal territorio, che farebbe emergere le distribuzioni di autori tra le varie regioni. Altra problematicità è certo l’antologizzazione sulla base di generazioni, che riterrei utile in fase di catalogazione e come “search” interno; se un critico dovesse giungere ad un risultato, dovrebbe far emergere la propria visione critica nella selezione finale – siamo stati abituati a prefazioni meravigliose, seguite da proposte antologiche che non riflettevano per nulla le impostazioni critiche, proprio per la mancanza di “archivio” -, non dimenticando però autori, le cui storie sono dignitose; e non si dovrebbero dimenticare le nuovissime generazioni, i cui risultati emergeranno in futuro. Un progetto antologico, in rete e in squadra, dotato di un’ottica di ricerca generazionale, tripartito tra 1. poeti rilevanti dal punto di vista di una critica individuale che superi le categorie novecentesche, 2. poeti rilevanti sul territorio, le cui storie siano di interesse, e poeti nelle cui opere siano presenti novità nei processi di formazione; 3. autori “promesse”.
Non siamo più in presenza di un contesto fatto da movimenti letterari, nutrito da autori la cui linea formativa è categorizzabile storicamente, ma in presenza di una esplosione di ideologie, poetiche, opzioni formative. Tutti questi elementi sono di interesse, anche se non incontreranno sempre i nostri gusti critici. La critica a cui piace il discorso monotono delle sue scelte primigenie, fin dal primo vagito poetico, rimarrà sbigottita dalla bestia della poesia metamorfica? La monotonia funzionale, la ripresentazione di modi di fare, la riconoscibilità con qualche variazione sul tema di una serie di poeti, ha ragione di valere anche per le nuove generazioni? Ciò che qualcuno chiama “cifra”, cosa significa oggi? Cari amici, non ridete; ho scritto troppo, e complicato molto. Ovviamente affrontare il discorso sul metamorfismo e la poesia, che ho a cuore, equivale a spronare i critici a un lavoro durissimo di motivazione, e i poeti a tenersi informati. Equivale forse a porre l’assedio a quella critica preparatissima, i cui risultati sono insoddisfacenti. Gli interrogativi rimangono aperti, e la strutturazione di un convegno potrebbe affrontarli seriamente, poiché non possiamo parlare di poetiche, senza l’introduzione di elementi estetici a supporto della critica, senza la mediazione di un nuovo (in verità mediato da qualche vecchio) modo di vedere la critica e il nostro impegno.

(Articolo realizzato per l’incontro organizzato da Poesia2punto0 del 21 gennaio 2012 a Verona)

La casa di quale letteratura? epilogo di un distretto culturale

La notizia che il “Distretto culturale evoluto”, promosso dalla Provincia di Trieste, sia stato bocciato in sede di fondi europei, è stata confermata dalla pubblicazione delle tabelle a marzo: il progetto non è stato ammesso per mancanze sostanziali.
Si chiude definitivamente un’era di promesse alle associazioni, orchestrate dal centrosinistra che guida la Provincia – con questa affermazione non si vuole difendere l’attuale giunta di centrodestra del Comune, che non dà risposte concrete all’associazionismo, né si può salvare una Regione priva di ragione, che ha cancellato dalle sue tabelle l’anno scorso i festival di letteratura, come Iperporti, Trieste Poesia e Residenze estive, che salvaguardavano, sottolineandone l’esistenza, gli autori triestini, da Pierri a Magris, o Heinichen, Covacich, Tolusso, Spirito, Kravos, Kosuta e tanti altri. Con una media tra i cinquanta e i duecento spettatori a presentazione, le manifestazioni cancellate hanno portato in città scrittori come Laura Pariani, finalista al Campiello, Giorgio Vasta, finalista allo Strega, Tahar Ben Jelloun, tra i più conosciuti scrittori marocchini, il padre del “noir” italiano, Loriano Macchiavelli, il colletivo Wu Ming, il filosofo Massimo Cacciari e pure la star pop sudafricana Ntsiki Mazway.
La variazione di bilancio regionale del 2010 ha finanziato le associazioni Alta Marea per il Premio Umberto Saba, Poesia e Solidarietà per il Premio Castello di Duino, Iniziativa Europea per il progetto Paesaggio Poetico dell’Euroregione sulle vie dell’arte e con i dialoghi dei poeti dell’Euroregione, Palacinka per la Fiera Bazlen, tra i cui ideatori c’è il segretario della UIL, Luca Visentini. Quest’ultima “Fiera” si tiene al Caffè San Marco, ma se pensiamo a Francoforte, a Roma, a Torino, anche alla vicina Pola, è di dimensioni contenute e risulta del tutto trascurabile turisticamente, nonostante sia stata finanziata dalla Camera di Commercio – i numeri non fanno sconti, una media di dieci persone ad evento, tranne la presentazione dell’anno scorso di Altan.
Alcuni degli ideatori delle iniziative finanziate nel 2010 li ritroviamo anche tra i vertici delle “case” nello stesso periodo: Gabriella Valera (Poesia e Solidarietà) risulta essere Presidente della Casa della Letteratura di Trieste, di cui fanno parte molte delle associazioni “tagliate”; Luca Visentini (Palacinka) è sia Presidente della Casa dei Teatri che Vicepresidente della Casa della Letteratura. Ma cosa sono queste “case”?
Sono associazioni di associazioni che dovrebbero organizzare il Distretto Culturale come una rete diffusa, non una piramide con al vertice i politici. Erano previste come seguito di uno studio preliminare, realizzato dalle associazioni Palacinka e Trieste Distretto Culturale, in convenzione con l’amministrazione provinciale, ma mai presentato.
Luigi Nacci – presidente di Trieste Distretto Culturale e primo promotore dell’idea distrettuale in città, fin dal 2005 – è stato escluso dalla seconda fase progettuale e dalla richiesta di contributi, nemmeno invitato al Convegno internazionale “Il distretto culturale evoluto: esperienze a confronto” che risale a ottobre 2009 presso il Teatrino del Parco di San Giovanni.
Dopo il convegno venne elaborata la richiesta di finanziamento alla comunità europea; nel progetto, risulterà coinvolta la sola Palacinka come capofila dell’associazione temporanea di scopo tra tutte le “case”… Nel caso il progetto europeo fosse andato a buon fine, i contributi da girare alle associazioni sarebbero finiti all’associazione guidata da Visentini? Non lo possiamo dire per certo, ma siamo sicuri che nella prima convenzione firmata da Palacinka e Trieste Distretto Culturale con la Provincia di Trieste, lo studio preliminare di Distretto apparteneva a tre soggetti – la Provincia e le due associazioni appena citate – e non a due soltanto. Nel caso quindi di un finanziamento, l’esclusione di soggetti promotori sarebbe potuta risultare problematica per delle possibili azioni legali?
Senza conoscere tutti i retroscena, c’è stata una battaglia per l’occupazione di “cariche” distrettuali, venissero dall’alto o dal basso, da parte di alcune associazioni, fatta eccezione di Trieste Distretto Culturale, che si è dimessa dalle “case” che aveva contribuito a creare.
Il labirinto distrettuale ci riporta al 2010, quando Gabriella Valera, neo-eletta Presidente della Casa della letteratura, nomina (è una sua prerogativa) come Vicepresidente Luca Visentini; nel mese di giugno dello stesso anno, prima della variazione di bilancio regionale, viene convocata una conferenza stampa in assenza di un direttivo della “casa”, senza concordare modalità e contenuti dell’intervento, in sostanza non prendendo in considerazione gli articoli di statuto che interpretano come sacrosanta l’autonomia delle associazioni. La conferenza, tenutasi al Caffè Tommaseo, criticava aspramente la Regione per la mancata assegnazione di contributi – si può sottolineare che, successivamente, in variazione di bilancio Palacinka e Poesia e solidarietà sono state finanziate, come spiegato; le altre associazioni della “casa”, proprio quelle che organizzavano i festival più importanti, a secco. Lo stesso “Iperporti”, festival partorito dalle associazioni della Casa della letteratura, dimenticato in quella conferenza stampa, è stato quest’anno archiviato per l’idea vetusta, proposta da Valera, di un “Parco letterario”.
Tempo fa le pagine dei giornali titolavano che Trieste mancasse di eventi. Se la politica fosse più attenta, instaurando un dialogo con le persone che si occupano seriamente di cultura e letteratura, liberando le associazioni da qualsiasi vincolo, non assisteremmo a questi epiloghi, che rischiano solo di mettere le associazioni le une contro le altre a causa di gestioni sbagliate dei progetti.
Mancano pochi giorni alle elezioni e la notizia dell’affossamento del progetto distrettuale, non è stata data. Dovrebbe essere invece chiarito il futuro, perché il fatto è che “il distretto culturale” non si farà e che le associazioni che si occupano di letteratura in città sono divise, metà dentro un contenitore oramai svuotato di senso e obiettivi, metà alla ricerca di un interlocutore che aiuti veramente chi la letteratura la realizza.

Calpestare l’oblio

E’ appena uscito sul sito de “La Gru” il volume in pdf di Calpestare l’oblio. Cento Poeti contro la minaccia incostituzionale, per la resistenza della memoria repubblicana. Ho letto e riletto il libro, nella sua stesura completa, dopo le manifestazioni organizzate a Roma, dopo gli articoli apparsi su vari quotidiani (L’Unità, MicroMega, Il Corriere della Sera, Il Giornale, Libero, Il Foglio, Il Manifesto).
Premetto che alcune delle motivazioni dell’operazione orchestrata da Davide Nota, dai responsabili de “La Gru” e da Fabio Orecchini, come il trentennio di “interruzione culturale”, le rivendicazioni dei poeti che si vedono esclusi dai quotidiani, dalla televisione, non hanno molto a che vedere con il titolo dell’antologia.
Premetto che la poesia è un media e ha la sua potenza. E’ un errore delegare ad altro le sue funzioni, la sua importanza.

Premetto che molti poeti, una volta, si interessavano dei bisogni degli individui di questa società, non dei bisogni dei poeti stessi.
Premetto che per manifestare bisogna non solo individuare i bisogni, ma essere capaci di far sentire la possibilità di un cambiamento. Questo significa nutrire la visione di un futuro. Sarà quindi indispensabile pensare un altro sistema e praticarlo per favorire il cambiamento, sottolinearne l’urgenza; non è di grande utilità mimetizzare l’attuale sistema o servirsi delle sue categorie, desiderarle, poiché è l’attuale sistema che si nutre grazie a noi, servitori dei suoi meccanismi.
Premetto che la società è da interpretare, gli individui da spronare; oggi si cerca di rappresentare o, al massimo, interpretare il potere: al potere si scrive, non per minarlo criticamente, spesso solo per esser contro, per protesta: è sempre al potere che ci si rivolge, poiché è il potere l’obiettivo, il simulacro – i suoi nodi rimangono gli stessi. Non può esistere nuova operatività senza uno scarto dal sistema, una serie di differenze e possibilità.
A cosa serve rivolgersi al “Ministro”, anche se è Lello Voce, un poeta che stimo, a farlo?
Premetto che alcuni dei poeti pubblicati in questa antologia mi hanno colpito: Martino Baldi, Matteo Fantuzzi, Adriano Padua, Luigi Di Ruscio, Fabio Franzin, Tiziano Fratus, Natalia Paci e Alessandro Seri; e sono da leggere gli inediti del grandissimo Antonio Porta, scomparso da più di venti anni, ultimo a interpretare la forza della poesia, nel favorire come una “scommessa” o un “volo” le funzionalità che si sarebbero riversate tra tutti gli ambiti della vita umana per realizzarla (e anche nella sua comunicazione, come scriveva Giovanni Raboni in un bel articolo del 1998 sul Corriere della Sera).
Sono convinto che, viste queste premesse, l’antologia non possa essere criticata nel suo insieme, frutto di un’adesione spontanea, ma carente di testi e del tutto noncurante nella ricerca di un’operatività – non è uno strumento che sonda la scena contemporanea, come potevano risultare le serie di Poesia del dissenso, curate da Erminia Passannanti, o il recente Pro-Testo di Luca Paci e Luca Ariano.
Mi domando però cosa significa dare voce ai bisogni.
Mi domando cosa significa criticare.
Mi domando il significato di manifestare, contro chi o cosa o a favore di chi o per che cosa. Assieme a chi.
Non credo di essere l’unico che se lo dovrebbe domandare.

AbsoluteFuture

La quarta edizione di AbsolutePoetry, organizzata dal Comune di Monfalcone e dedicata alle giovani leve della poesia, si è tenuta dal 7 al 10 ottobre scorso. Dopo l’edizione del centenario dalla nascita dei cantieri navali, gli “Internazionali di Poesia” si sono occupati di poeti esordienti, attivando una speciale convenzione con il Ministero della Gioventù.

Non potevano mancare dunque elementi di criticità, in merito alla formula sperimentata quest’anno, tesa all’individuazione di poeti nuovi, boccioli, ma anche bozze, spunti, ipotesi (“chi crederebbe?” domanda Zanzotto in IX Ecloghe, e, continuando a citare sull’Italia provincial-poetica, si potrebbe affermare che è il “paese che sempre/piumifica e vaneggia di verde e primavere”). Poi, però, alcuni di questi poeti sono già templi e ali bianche, piumate, alberi rigogliosi, formati, forti.

Questa riflessione necessita di sensibilità e di fortuna, per ponderare e scommettere sul futuro di questi poeti, della poesia e di questo festival, che può crescere, ma come, e come è stato?

Mercoledì 7 ottobre, due presentazioni anticipatorie: il reading degli autori usciti per la collana “miosotis” della d’if, casa editrice specializzata in plaquette, curata da Gabriele Frasca, e la lettura collettiva del “decimo quaderno di poesia”, edito da Marcos y Marcos, coordinata da Franco Buffoni.

Al progetto della d’if, un libricino-premio che il critico Giancarlo Alfano, lo stesso Frasca e l’editore Antonietta Caridei realizzano a Napoli, hanno partecipato nel recente passato Giuliano Mesa, Rosaria Lo Russo, Tommaso Ottonieri e Nicola Gardini. La nuova edizione illumina i nomi di Silvia Cassioli, Adriano Padua e Luigi Nacci, pure consulente di AbsolutePoetry, nonché inserito nel quaderno della Marcos y Marcos: c’è da dire che è bello vedere dei trentenni pubblicare, ma son pur sempre plaquette (5-10 testi) e se la poesia non si confronterà con un libro, a questa generazione di poeti non rimarrà che un vasto curriculum di libri minuscoli e comparsate in antologia. Che dire allora dei “quaderni” buffoniani: mi rimangono impressi i molti elogi ai poeti del curatore, ma chi si potrebbe salvare? Sicuramente Italo Testa, poeta già “scafato”, che nel 2007 pubblicava, per la LietoColle di Como, Canti Ostili: “questa non è una nave./questa notte non è notte./manichini in coperta./animali nella stiva.//questa non è una nave./questi animali non sono uomini./trasporto artisti./affilate i coltelli […]).

Affilando il coltello, la polemica, qui, è voluta, nel senso che la poesia non abbisogna di presentazioni formidabili, poiché se il poeta è giovane va spiumato, ma se il corpo è forte avrà altre possibilità di fiorire. E le antologie, fondate sul criterio di un selezionatore, senza un’indagine tematica, estetica, su processi della scrittura, del fare contemporaneo, non hanno più senso; e che senso ha dire non a tutti piacerà la poesia di uno di questi versificatori, ma siccome ce ne sono tanti prima o poi uno piacerà o qualcuno di questi, in dieci anni di onorato lavoro, ha pubblicato, ma prosa, con importanti case editrici per sostenere la scelta dell’antologia come labor vincente? Lascio al lettore capire quanto sia debole questo discorso, e dove sia finita la critica… che abbia sentito male? Spero di confondermi.

Giovedì 8 ottobre, finalmente i reading e le performance al Teatro Comunale.

Prima ad esibirsi, Mary Barbara Tolusso: una lettura graffiante, descrizione dei menage amorosi sex and bisex contemporanei, apprezzabile perché non così minimalista come l’avevamo lasciata alcuni anni fa dopo la lettura de L’inverso ritrovato, edito da Lietocolle, ma ironica e stuzzicante anche nelle spiegazioni pre-lettura e più verbata nell’affabulazione – cito dell’autrice anche Cattive maniere, edito da Campanotto, opera che preferisco.

Straordinaria la performance di Maria Valente, giovane poetessa (ancora inedita) da seguire, sapendo che siamo solo di passaggio, che ci pensiamo stranieri alle volte alla nostra stessa poesia; ma con fiducia ingenua possiamo abbandonare le nude braccia di noi infanti della vita, senza difetti, e sentire di essere avvolti nel vestito fino ad assumere la posa della spiga… Questo tocca della poesia di Valente, nel momento tra l’esserci e l’andare, è seduzione come se a cantare fosse il mettere a nudo la sensibilità. Questa nudità è anche volontà di cambiare il mondo, nella consapevolezza della nostra fragilità e della follia di questa intenzione.

Cambiando radicalmente registro, il britannico Murray Lachlan Young ha letto dal libro edito da Bombiani nel 1998, Casual Sex e altri versi, accompagnato dalla tromba e dai loop psichedelici di Mario Fragiacomo, jazzista triestino che vive a Milano. Ottima esucuzione: una poesia caustica, feroce nella descrizione della società con un canto, anzi, vere e proprie canzoni, dissacranti: “Ci sono figlie di pastori protestanti/prole del clero,/Ci sono amabili onorevoli – avvocati/ al vertice di ogni classe/della società contemporanea/hanno buttato via ogni occasione/hanno abbracciato con totale entusiasmo/il più incredibile passatempo/che si sia mai visto./Sì, poliziotti e idraulici,/spazzini e pari del reame.//Semplice ognuno si fa di coca//Alle manifestazione sportive nei paesini […]”. Simply everyone’s taking cocaine, ritornello ossessivo che nel finale del poema si trasforma in una stilettata: “Sembra tutto così pieno di gioia,/siamo tutti radiosi./Quanto ci divertiamo/e che scaltrezza”. Già, che scaltrezza…

Non posso poi non parlare di Patrizia Valduga: sa giungere a “noi” sullo sfondo della crisi del pensiero del Novecento, interrogando le divinità silenti della storia umana; senza ottenere risposta, ci chiede di continuare: “Io mi arrendo,/congedo i miei soldati,/la mia legione di sogni/e di versi./Combattete per altri/disarmati,/vincete in verità,/miei sogni in versi”.

La serata del venerdì 9 ottobre, si apre con Matteo Danieli (nella foto) e Furio Pillan, accompagnati dai Baby Gelido, band tutta triestina che esplora, ed esplode, la poesia con una musica elettronica dai forti accenti rock. “Non v’illudete stranieri d’aver trovato l’amore, poiché l’amore è morto, l’amore è morto” e si odono i versi di Danieli. E ‘una riflessione filosofica sulla morte di Dio, di cui l’amore era premessa… Quindi la civiltà crolla, jungerianamente, ma per fare posto a cosa? Forse la risposta ed entrambi i poeti nella collana “Libretti Verdi” edita da Battello Stampatore di Trieste.

Performance teatrale invece per Jimi Lend, emergente poeta austriaco, direttore e partecipe di numerosi slam, gare di poesia. L’autore, anche drammaturgo, attore – in Italia il 24 novembre prossimo per il quarto slam internazionale di Trieste, al Club Tetris di via della Rotonda, per chi desiderasse ascoltarlo -, ritma la poesia affondando la sua carne nelle relazioni sociali, piegandola sopra l’apocalisse politica delle globalizzazioni incontrollate, sull’orrore delle vicende storiche recenti.

Infine, Taslima Nasreen, esiliata dal Bangladesh per via della sua lotta a favore dei diritti delle donne. Entrata dolcemente in scena, la sua poesia si fa in una lettura semplice. Profonda e dolorosissima, vede la madre morire perché il padre non la cura, perché non le crede, poiché la cultura di un popolo può anche uccidere, e non dobbiamo dimenticarcene. Rimane l’esserci stati nella commozione, che è più di qualsiasi spiegazione e di qualsiasi denuncia.

Un AbsolutePoetry buono, ma non un totale acuto; un festival indispensabile, poiché non ne esistono altri al mondo con questa apertura – carattere questo di Lello Voce, il direttore artistico. Che serva un comitato scientifico allargato, che si trovi spesso, per produrre più contatti?

Sondare la scena della poesia mondiale può non essere facile, e servono argomenti. Serve uno sforzo in più del Comune di Monfalcone, che deve nutrire questo festival dal punto di vista organizzativo, dando la possibilità di costruirlo mese per mese, e non anno e mezzo per anno e mezzo. Per la criticità, è utile aggiungere che nella manifestazione collegata, UdineTraduce, c’erano molti poeti presenti alle edizioni precedenti: la scena della poesia contemporanea, pur vasta, è ancora fatto di conoscenze, ma la raccolta di informazioni può essere moltiplicata e le scelte si possono variare (è peraltro un problema anche di altri festival), anche se, da un altro punto di vista, rivedrei sempre qualcuno, come un Sanguineti, o uno simile alle sue parole, al sé vivente, all’oltrecielo dell’oltrevita, che non siamo altro che noi e la nostra adesione alla poesia.

Cultura, politica e dissenso nella Trieste di Veit Heinichen

Nei primi anni ’60 del secolo scorso, un intellettuale russo, Vladimir Konstantinovič Bukovskij, iniziò giovanissimo a organizzare reading di poesia in un parco di Mosca sotto il monumento dedicato a Majakovskij. Alle letture iniziò a intervenire un pubblico numeroso, tra cui anche gli agenti del KGB: requisivano i samizdat, cercando di ricostruire l’organigramma dell’organizzazione. Ben presto fu chiaro che a organizzare le letture era Bukovskij, attività che costò all’intellettuale circa 12 anni di reclusione tra galere e ospedali psichiatrici sovietici. Nel 1976 lo scrittore fu scambiato con l’ex leader comunista cileno Luis Corvalán, riparando così in Occidente.
La nota curiosa che emerge dalla storia fu che gli agenti del KGB divennero – come evidenziò lo stesso intellettuale sovietico nel romanzo autobiografico “Il vento va, e poi ritorna”, edito in Italia da Feltrinelli nel 1978 – ottimi conoscitori della poesia e dei poeti “dissidenti” fino al punto di discuterne i contenuti “sovversivi” dei testi.
Tra la storia dell’intellettuale sovietico e quella di Veit Heinichen non ci sono molti punti in comune, ma non ricordo a Trieste un politbureau riunito per decidere le sorti di uno scrittore, se non qualche cerimonia per donare targhe e sigilli. In riferimento alle polemiche di dicembre, conoscendo ciò che era accaduto durante il festival Iperporti, le missive spedite già allora dal diffamatore agli artisti e al comitato scientifico, ho provato un senso di straniamento, acuitosi oggi, come se qualcosa stesse accadendo in seno alla società, un impoverimento intellettuale ed etico, la presenza dei “corvi”, non quella dei “cigni”.

La politica per necessità e democrazia deve poter essere criticabile; siccome è da un po’ che i politici hanno smesso di occuparsi di scrittura, passato qualche tempo dalla querelle, vorrei ricordare che le polemiche a cui abbiamo assistito erano diretti attacchi ad un autore che nemmeno si conosceva – aspetto che possiamo estrarre dalla dichiarazioni di allora -, non tanto al concetto che questi aveva espresso sull’amministrazione della cosa pubblica.

La prima cosa a cui avremmo dovuto pensare è che uno scrittore che sforna bestseller su Trieste è un veicolo promozionale per la città, che i romanzi hanno più parole di una frase riportata su una rivista mesi prima, che gli appassionati tedeschi dell’Ispettore Proteo Laurenti ci visitano. La politica deve prendere spunto dagli intellettuali, riconoscerne il merito, cercare il dialogo e rispondere con i fatti, non con la polemica, perché detiene il potere, e non è cosa da poco.

Denoto pure che, contrariamente a quanto ci si potesse aspettare, il mondo della cultura non si sia mosso per cogliere l’occasione di elaborare le motivazioni del dissenso di Heinichen e spendere qualche parola costruttiva, prendersi la responsabilità di indicare problemi più rilevanti. Un’occasione persa. Ma non è nuova nemmeno la prassi di un certo ambiente della cultura triestina in merito a lettere diffamatorie, per la partecipazione di un poeta a una lettura pubblica, per la gestione di tre o quattro lire di finanziamenti.

Forse è tra alcune invidie in questo ambito, che bisogna ricercare il colpevole della diffamazione.

In ogni caso, credo debba venir meno l’astio della classe politica a causa dell’intervista uscita ad ottobre sul magazine sloveno. La considerazione che Heinichen nutre per Trieste, ambientazione privilegiata delle sue narrazioni, è anche il nostro biglietto da visita, e dobbiamo difendere questa eccellenza, facendo autocritica, se serve.
Se Heinichen pone l’attenzione sul declino della città – lo stesso on. Menia lo ha rilevato più volte -, è lo sfogo di una persona che ha a cuore il luogo in cui ha scelto di vivere, che vuole dialogare, ma non sente ci siano interlocutori, solo persecutori.
Che Trieste si trovi in un periodo di stasi, che alla classe politica manchi qualcosa (la visione di un modello di sviluppo condiviso dai partiti), è un particolare che i cittadini percepiscono: a più riprese l’anno scorso si è discusso su questi aspetti, prendendo in esame anche la cultura.
E’ naturale che i politici – pur chi svolge il mandato con merito – abbiano avversato le dichiarazioni di una persona in vista come lo scrittore tedesco: è un attacco alla conduzione della politica, che sovente spinge il dibattito sulla città su posizioni ideologiche, evidenziando l’anzianità delle lobby, sia a destra che a sinistra. Lo stesso Boris Pahor ne discusse al Teatro Miela a novembre, durante Iperporti, facendo notare che i triestini hanno superato certe logiche.

La classe politica, oltre a ricomporre un dialogo con gli uomini che fanno cultura senza paura delle critiche, deve interrogarsi seriamente sul nostro futuro, sapendo che gli intellettuali, da cui siamo partiti, parlano della realtà in cui viviamo, dell’essere umano, attraversando con il loro sguardo la società. Pensando alla città del futuro, gli intellettuali triestini devono poter indicare dei modelli, e i politici cercare di dialogare con essi.
Nella speranza di ritrovarci sotto qualche statua a leggere versi e narrazioni, con un politbureau schierato al fine di raccogliere informazioni vitali per costruire il futuro, non gli uni contro gli altri, ma assieme, credo si debbano ascoltare le vicende drammatiche che stanno colpendo un nostro concittadino, anche per via del dissenso che evidenzia proprio grazie alle sue opere. Ciò che Heinichen sottende, è una società pulita nei rapporti, dinamica e progettuale nelle scelte.

Ai politici che sapranno interpretare questa vicenda con coraggio per costruire una visione di Trieste, possiamo augurare tutte le fortune. Io auguro a Veit che questa persecuzione finisca e che possa contribuire alla costruzione di una Trieste migliore con tutti noi, se questo noi vorrà farsi finalmente presente.